Con la sentenza n. 150 del 2021, la Corte costituzionale, investita dai Tribunali di Salerno e Bari, si è pronunciata in merito alla legittimità della previsione della pena detentiva per i fatti di diffamazione aggravati commessi a mezzo stampa.
I giudici rimettenti, infatti, ipotizzavano un contrasto tra l’articolo 13 della legge sulla stampa (l. 47/1948), il quale sanziona con la pena della reclusione da uno a sei anni la diffamazione commessa a mezzo stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, e la libertà di manifestazione del pensiero, sancita dall’art. 21 Cost., oltre che dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Va detto che la Corte, chiamata ad esprimersi sul punto, aveva in un primo momento deciso di rinviare di un anno la decisione, in modo tale da consentire un intervento del legislatore che ridefinisse, con una apposita disciplina, gli equilibri tra il diritto alla libertà di cronaca e di critica dei giornalisti e la tutela della reputazione individuale.
Il monito è tuttavia rimasto inascoltato e dunque è stata la Corte ad intervenire, con la pronuncia in commento, sancendo l’incostituzionalità delle norme vigenti, le quali vincolano il giudice ad irrogare una pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo della stampa o della radiotelevisione, aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato, ponendosi in contrasto con la libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta tanto dalla Costituzione italiana quanto a livello sovranazionale.
Nel giungere a tale conclusione, il Giudice delle leggi osserva che “la minaccia dell'obbligatoria applicazione del carcere può produrre infatti l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro cruciale funzione di controllo dell’operato dei pubblici poteri”.
Tuttavia – si legge nella sentenza - non è di per sé incompatibile con la Costituzione che il giudice applichi la pena del carcere a chi, ad esempio, si sia reso responsabile di “campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi”. Ciò in quanto “chi ponga in essere simili condotte – eserciti o meno la professione giornalistica – certo non svolge la funzione di ‘cane da guardia’ della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità ‘scomode’; ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia”, anche per i possibili effetti distorsivi di tali condotte sulle libere competizioni elettorali.
Quel che non è conforme a Costituzione, insomma, è che si vincoli il giudice ad applicare necessariamente, per tali fatti, una pena detentiva.
Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte ha altresì dichiarato illegittimo l’articolo 30, comma 4, della legge n. 223 del 1990 sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato, che estendeva le sanzioni previste dall’articolo 13 della legge sulla stampa alla diffamazione commessa per mezzo della radio o della televisione.
Coerentemente poi, è pervenuta a diversa conclusione con riferimento alla paventata illegittimità dell’art. 595, comma 3 c.p., osservando che in tal caso la previsione in alternativa fra loro, della pena della reclusione da sei mesi a tre anni ovvero della multa in caso di condanna per diffamazione commessa a mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità, consente di ritenere la norma immune da censure.
La decisione risulta di particolare interesse per il pregevole sforzo effettuato dalla Corte nell’operare il bilanciamento tra interessi contrapposti ed entrambi di rilievo costituzionale.
Al riguardo, si rileva che “se è vero che il diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è men vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla dignità della persona”. Pertanto, “aggressioni illegittime a tale diritto”, compiute attraverso la stampa, la radio, la televisione, le testate giornalistiche online e i siti internet in generale, i social media e così via, “possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime”.
Secondo la Consulta, dunque, non può ritenersi di per sé incompatibile con la libertà di manifestazione del pensiero una norma che consenta al giudice di applicare la pena della reclusione nel caso in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità, dal punto di vista oggettivo e soggettivo.
Proprio per tale ragione l’articolo 595, terzo comma, del Codice penale è stato considerato compatibile con la Costituzione, a condizione tuttavia che venga interpretato nel senso che la reclusione può essere applicata dal giudice soltanto in quelle ipotesi denotate da estrema gravità. In tutti gli altri casi, resterà invece applicabile soltanto la pena della multa, opportunamente graduata secondo la concreta gravità del fatto, oltre che i rimedi e le sanzioni civili e disciplinari.
Ed infatti, “se circoscritta a casi come quelli appena ipotizzati la previsione astratta e la concreta applicazione di sanzioni detentive non possono, ragionevolmente, produrre effetti di indebita intimidazione nei confronti dell’esercizio della professione giornalistica e della sua essenziale funzione per la società democratica. Al di fuori di quei casi eccezionali, del resto assai lontani dall’ethos della professione giornalistica, la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista, così come per chiunque altro che abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione”.
Infine, nel concludere la Corte ha colto l’occasione per ribadire comunque la già evidenziata necessità di giungere ad una complessiva riforma della disciplina vigente, allo scopo di “individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica, e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività”.